Contro le guerre e chi le arma, fermiamo il militarismo! [dal XXXI Congresso FAI]

La guerra in Ucraina continua a mietere vittime, come in ogni conflitto bellico a pagare il prezzo più alto sono le popolazioni civili sottoposte a bombardamenti, rastrellamenti, arruolamenti forzati, stupri. Sono le classi sfruttate e oppresse che da una parte e dall’altra del confine vengono mandate al macello o vengono perseguitate se si rifiutano di combattere, o se agiscono per sabotare la guerra. Le logiche di dominio proprie di ogni stato trovano nella guerra il loro sbocco più naturale e la guerra chiude le prospettive di autonomia delle classi sfruttate, alimentando nazionalismo e militarismo di cui la guerra stessa si nutre. Questa guerra, come le tante altre che insanguinano altre parti del mondo ma che non godono degli stessi riflettori mediatici, è da contrastare con posizioni internazionaliste e disfattiste, senza tentennamenti, non solo per le morti e le devastazioni che sta causando nei territori coinvolti, ma anche per le conseguenze dirette che sta provocando nel nostro paese e in tutto il mondo.

Stiamo infatti assistendo ad una spaventosa accelerazione delle politiche militariste, accompagnate da una sempre maggior militarizzazione della vita sociale. In questi mesi abbiamo assistito da parte delle compagini governative ad una propaganda bellicista senza precedenti per il potenziamento degli arsenali e per gli investimenti in armamenti. I governi europei hanno deciso di preparare la guerra: con l’invio di armi e denaro all’Ucraina, con il dispiegamento di truppe e mezzi e aerei, con l’aumento delle spese militari. In pochi giorni sono cadute tutte le grandi dichiarazioni ideologiche su cui finora si basava l’Unione Europea come garante della pace nel continente. La stessa Unione Europea infatti sta approfittando del conflitto ucraino per potenziare i progetti di esercito europeo e per indebitare l’Ucraina finanziandone l’armamento tramite il budget della European Peace Facility. Nello stesso modo gli Stati Uniti stanno vendendo armi all’Ucraina per 40 miliardi che andranno restituiti anche tramite la cessione di materie prime e apparati produttivi.

Un’altra conseguenza diretta di queste politiche di riarmo è la compressione dei salari della classe lavoratrice di tutta Europa che, assieme agli enormi aumenti dei costi dell’energia e dei beni di prima necessità dovuti in primis a logiche speculative, stanno peggiorando velocemente le condizioni di vita dei ceti popolari. In questo contesto il blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina ha già causato un aumento del prezzo di questo bene primario che sta colpendo in particolar modo alcuni paesi e potrebbe in tempi brevi causare una vera e propria crisi alimentare a livello mondiale.

Stiamo assistendo al tramonto della globalizzazione, quantomeno per come si era definita tra lo scioglimento dell’URSS e l’ingresso della Cina nel WTO. Negli ultimi dieci anni l’intensificazione delle tensioni tra gli stati, la guerra commerciale e finanziaria, il progressivo isolamento più o meno parziale dei mercati, l’estensione dei conflitti in parte per procura, ma sempre più in forma diretta, tra le potenze mondiali e regionali in diverse regioni del mondo, hanno definito uno scenario molto diverso. Il modello capitalista imposto nel secolo scorso dall’egemonia statunitense è ancora l’orizzonte entro il quale si realizza la contesa tra gli stati, ma il mondo non è più dominato da un’unica superpotenza. Gli USA hanno perso la guerra in Afghanistan, in Iraq e in Siria, e rispetto a pochi decenni fa vedono molto ristretta la propria influenza nell’America Centrale e del Sud, in quello che erano abituati a considerare il giardino di casa. L’accordo AUKUS tra Australia, UK e USA, che da una parte ha riorientato verso il Pacifico con un’alleanza separata la strategia di questi stati, sembrava mettere in discussione la presenza statunitense in Europa e la stessa coesione se non l’esistenza della NATO. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si inserisce quindi in un processo di ridefinizione degli equilibri tra le potenze a livello globale.

La crisi dell’egemonia è strettamente legata alla crisi dei sistemi di governo e coesione sociale, perché con il taglio delle garanzie sociali e la debolezza dei meccanismi di consenso, con l’insorgere in molti paesi di movimenti che con forme e caratteri diversi mettono in discussione i governi e gli accordi tra le classi dominanti, l’uso della forza diviene strumento principale per la conservazione del potere e dell’ordinamento sociale. In questo senso abbiamo parlato negli ultimi anni di un crescente ruolo del militare nelle società.

La rivolta in Bielorussia del 2020 e l’insurrezione in Kazakistan a gennaio 2022, hanno reso evidente la grave crisi di consenso interna al sistema a guida russa. Nella tenuta dell’OTSC l’esercito ha assunto un ruolo fondamentale. L’intervento militare russo in Kazakhstan per stroncare nel sangue l’insurrezione popolare ne ha dato una tragica dimostrazione, e ha aperto la strada all’invasione dell’Ucraina a febbraio. Anche negli USA le rivolte contro la polizia, contro la violenza razzista del 2020 hanno portato a inizio 2021 i vertici delle forze armate a sostenere in un clima da preludio di guerra civile l’insediamento di Biden alla presidenza, per evitare che il suprematismo violento di Trump esasperasse irrimediabilmente la crisi di consenso.

L’Italia è direttamente e pesantemente coinvolta in questo scenario tramite le decine di missioni militari all’estero; missioni in via di potenziamento sia nell’Est Europa che in Africa, continente sempre più al centro degli interessi delle multinazionali nostrane, ENI in primis, che hanno un ruolo sempre più centrale nell’orientamento della politica estera dello stato italiano.

Nei fatti vediamo ormai sparire i già labili confini fra guerra interna e guerra esterna: l’esercito ormai fa parte integrante del paesaggio urbano delle nostre città, sempre più utilizzato per questioni di ordine pubblico e al contempo sempre più legittimato nelle missioni all’estero a proteggere gli interessi delle classi dominanti. Sulla base di questo abbiamo sempre confermato negli ultimi anni la necessità della lotta al militarismo, segnalando quanto potesse essere concreta la minaccia della guerra anche nelle nostre società. Ora che la minaccia si fa più evidente e lo spettro della “guerra in casa” genera una paura crescente soprattutto in alcuni paesi europei, si rende necessario dotarsi di strumenti di analisi e di lotta, che si accompagnino alla costruzione di reti di solidarietà, che siano in grado di respingere la stretta militarista e autoritaria.

Riteniamo che il movimento anarchico debba mantenere alta la bandiera della solidarietà tra le classi sfruttate, al di là e contro tutti i confini e tutti i governi, ed essere un punto di riferimento per tutte quelle forze che nella società vogliono opporsi alla guerra. Un’opposizione che passi dalla lotta contro le missioni all’estero dello stato italiano e dalla lotta contro le installazioni militari, raccogliendo l’importante segnale dello sciopero generale del 20 maggio, cercando di sviluppare a livello territoriale come sui posti di lavoro un movimento di massa contro la guerra che faccia proprie le parole dell’antimilitarismo e della diserzione.

Federazione Anarchica Italiana – FAI

5 giugno 2022

XXXI Congresso

Qui il documento sulle campagne antimilitariste.

Related posts